Il Mito

Il Mito

IL MITO

(Cap 1 Tesi di specializzazione: “L’immagine di Eracle”)

“Le immagini mitologiche mettono in contatto la propria coscienza con l’inconscio. Ecco ciò che sono. Quando una persona non ha immagini mitologiche, o quando la coscienza le rifiuta, quale che sia la ragione, rinuncia ad essere in contatto con la parte più profonda di sé. In questo, ritengo, sta lo scopo del Mito nel quale ognuno vive. Si tratta di trovare il Mito nel quale viviamo, conoscerlo, in modo da dirigere la nostra esistenza con competenza.
Quale è la chiamata della tua vita lo sai?”

Joseph Campbell

1.1 Dal Mythos al Logos

 Il termine “mito”, nonostante la sua origine non sia certa, deriva, probabilmente dalla radice di origine indoeuropea, meudh, mudh che fa riferimento al pensiero e al ricordarsi.

Il vocabolo Mythos in greco antico ha due accezioni: parola e racconto. La prima riporta ai seguenti significati: parola pubblica, conversazione, pensiero e messaggio. Alla seconda corrispondono narrazione, finzione opposta alla realtà e trama.

Come spiega Ries,[1] il significato della sua etimologia è duplice e può intendersi sia nel pensiero non espresso, l’idea Gedanke, sia nel pensiero espresso Wort, la parola, il messaggio contenuto nella parola.

In origine i miti compaiono come narrazioni orali tramandate da sacerdoti poeti e cantori, spinti dal bisogno profondo di inventare un senso divino del mondo, di dare risposta ai grandi temi dell’esistenza umana. Solo in un secondo momento, tali narrazioni furono messe per iscritto da uno o più autori, motivo per il quale, lo stesso mito, in versioni differenti, può variare nei dettagli. Secondo lo studioso Walter Friedrich Otto, fino al V secolo il mito era considerato una verità, indicando originariamente “la parola” nel senso antico, ossia una definizione che non trova ancora distinzione tra parola ed essere.

Certo non si può negare che il mito sia anche una creazione poetica, un racconto sul mondo che prende forma e attinge nelle profondità umane, nelle angosce e nelle paure dell’uomo.

Come sosteneva Vico «Poetare significa fare, produrre, creare […]»[2], dunque, il mondo è poetato dagli uomini e prodotto dalla loro capacità poetica attraverso il racconto mitico.

Ricordiamo, infatti, che la parola “poesia” deriva dal greco poiesis che significa produzione. Il canto del poeta e l’attività del mitografo dunque coincidono in produzioni che, attraverso il linguaggio, hanno lo scopo di originare la coscienza di sé.

Al tempo di Omero e di Esiodo, quando ancora non si poneva distinzione tra il vero e il non vero, il termine mythos, aveva lo stesso significato di logos.

Come afferma Fattal, infatti, «In Omero non è ancora possibile porre una netta separazione fra il dire il vero e il falso perché sia l’uno che l’altro si trovano coinvolti nell’atto del sedurre»[3]. La parola è intesa allora come magia e ancor più come rimedio che può liberare dal dolore incantando e persuadendo la mente, rimarginando le contraddizioni interne. Fino a questa epoca i miti sono considerati discorsi autorevoli e per nulla ingannevoli.

Con la nascita della filosofia i due termini divennero contrari e opposti: mythos come finzione, idea e racconto che non richiede dimostrazione e logos come verità, espressione e argomentazione razionale.

Inizia dunque la critica e la demitizzazione, la ricerca di una verità incontrovertibile che faccia uscire dall’esistenza guidata dal mito, dal sogno e dall’illusione, per la ricerca di un sapere innegabile e assoluto. Ritenute insufficienti le spiegazioni della natura e dell’origine del mondo fornite dalla produzione mitologica, i primi filosofi si opposero a queste con spiegazioni razionali logiche e dimostrabili.

In particolare, da Pindaro, Erodoto e Tucidide, il termine mythos acquisisce significato di racconto favoloso e come tale viene rifiutato o relegato solo alla sfera della fantasia. Spesso si ricorreva a questo vocabolo per designare parole dette dai rivali, e dunque poco valide.

Così afferma Tucidide riguardo all’inesattezza dei miti:

«Le antiche vicende, dunque, risultano, alle mie ricerche, tali; difficile è certo farsene un’idea esatta, pur vagliando, in ordine, ogni testimonianza. Poiché gli uomini accettano gli uni dagli altri, senza alcuna ricerca critica, le voci che corrono sui fatti precedenti, anche se interessano il loro paese. […] Era ben difficile la ricerca della verità perché quelli che erano stati presenti ai singoli fatti non li riferivano allo stesso modo, ma secondo che uno aveva buona o cattiva memoria, e secondo la simpatia per questa o quella parte. E forse la mia storia risulterà, ad udirla, meno dilettevole perché non vi sono elementi favolosi; ma sarà per me sufficiente che sia giudicata utile da quanti vorranno indagare la chiara e sicura realtà di quanto in passato è avvenuto e che un giorno potrà pure avvenire, secondo l’umana vicenda, in maniera uguale o molto simile. Appunto come un acquisto per l’eternità è stata essa composta, non già da udirsi per il trionfo nella gara di un giorno».[4]

Le persone dunque, afferma criticandole lo storico ateniese, credono alle fantasie dilettandosi in racconti che non hanno nulla a che fare con la realtà. Ma chi vuole la verità sul passato e dunque desidera crearsi ipotesi su un futuro possibile dovrà rinunciare agli abbellimenti e affidarsi alle parole vere.

La ricerca della verità sarà oggetto principale di studio della filosofia.

Esaminando l’etimologia della parola “Philosophia”, scopriremo che è composta dalle parole “filo” (philo, in greco significa aver cura e attenzione) e “sofia” (sophia, in greco significa sapere, sapienza), quindi Filosofia significa “aver cura del sapere”.

Scrive Emanuele Severino:

«Quanto alla parola philosophía (“filosofia”), essa significa, appunto, alla lettera (philo-sophia) “aver cura del sapere”. Se si accetta l’ipotesi che in sophós, “sapiente” (su cui si costruisce il termine astratto sophìa), risuona, come nell’aggettivo saphés (“chiaro”, “manifesto”, “evidente”, “vero”), il senso di phàos, la “luce”, allora “filosofia” significa aver cura per ciò che, stando nella “luce” (al di fuori cioè dell’oscurità in cui stanno invece le cose nascoste – e alétheia, “verità”, significa appunto, alla lettera, “il non esser nascosto”) non può essere in alcun modo negato. “Filosofia” significa “l’aver cura della verità”, dunque – dando anche a quest’ultimo termine il significato inaudito “dell’assolutamente innegabile”». [5]

Nel corso degli anni il mito diviene dunque un nemico della verità, in quanto, non garante dell’innegabilità e della certezza degli eventi raccontati.

Al mito la filosofia ritornerà con Platone che uscirà da questa impasse proponendone un uso nuovo.

Più di tutti i filosofi, egli utilizzerà il materiale mitologico in senso pedagogico, servendosene per facilitare la comprensione di messaggi che non possono essere compresi con il solo uso della dimostrazione. In questo senso il mito ricorre in aiuto a integrare e a completare la spiegazione razionale. Come afferma Mura:

«Platone assume infatti nei confronti dell’interpretazione del “mito” una posizione peculiare che potremmo qualificare come “intermedia” tra due estremismi: da una parte quello di ritenere il mito un puro racconto di favole false, non accettabili come spiegazione razionale del reale, alle quali andrebbe sostituito radicalmente il cammino del logos; e dall’ altra quello di ritenere il mito, anche nella sua espressione simbolica e poetica, come “l’unica” possibile manifestazione della verità».[6]

Secondo Brisson la funzione del mito in Platone rimane fondamentalmente la stessa: «creare nell’anima quello stato, segnato dalla gioia o dalla tristezza, che facilita la persuasione dell’elemento irrazionale – accessibile a questa influenza – da parte della ragione».[7]

Egli coglie che nel mito c’è una verità, diversa da quella razionale, ma non per questo meno veritiera, che solo attraverso la sua forma può essere intuita ed accolta.

1.2 Il ritorno dal Logos al Mythos

 L’identificazione del mito con un racconto fantastico e immaginario che facilita la comprensione di una verità, rischiando di diventare anche illusione o finzione, è argomento trattato con insistenza da molte prospettive e da numerosi studiosi nel corso della storia. Tra questi sono particolarmente noti: G. B. Vico, L. Levy-Bruhl, K. Kerényi, E. Cassirer, M. Eliade, G. Dumézil, C. Lévi-Strauss e F. Creuzer.

Nel settecento il filosofo Vico sostenne che il mito racchiude dei simboli originari che rappresentano l’eterna verità dell’uomo e a questa verità si può accedere soltanto con l’intuizione immediata, non con la scienza. Egli considera il mito come una figura autonoma di pensiero, una verità diversa da quella intellettuale solo nella forma, perché espressa in modo poetico e fantastico. Inoltre, come ben sottolinea Hillman, Vico, ancor prima di Jung, riconosce il carattere archetipico dei miti che hanno origine in modo indipendente «tra popoli tra loro non conosciuti»,[8] che egli definisce “universali fantastici”.

Levi Bruhl, studioso delle popolazioni primitive e delle religioni arcaiche, affermò che il mito rappresenta la storia sacra delle società inferiori, nelle quali prevale una carica emozionale, mistica, “prelogica” che non possiamo comprendere con la nostra modalità di pensare. Vi sarebbe per Bruhl infatti, un’incomunicabilità tra il pensare mitologico e il pensare logico che possiamo limitare solo azzerando il nostro apparato concettuale. Questo è anche il motivo per il quale ancor oggi è forte il piacere e l’attrazione dell’uomo civilizzato verso la produzione mitologica, la tradizione e il folklore, in quanto egli sperimenta, attraverso essi, una liberazione dalle proprie costrizioni concettuali eccessivamente razionali.

Kerényi rivendica il mito nella sua autonomia di significato, irriducibile ad una mentalità “simbolica”, intendendo con ciò il prelogicismo di Bruhl. Associa il mito alle arti e in particolar modo alla musica per la capacità che entrambe hanno di far intuire una realtà spirituale. Lo studioso riflette su come, sia la mitologia che la musica, reinterpretano continuamente il medesimo tema, esprimendo con ciò il carattere vitale di entrambi. Pertanto, in Kerényi la mitologia non è considerata come il frutto di una fantasia sfrenata o di un’ingenuità “primitiva”, ma come una risposta coerente e articolata al problema della presenza dell’uomo nel mondo. L’uomo dialoga con il divino attraverso i miti, facendo echeggiare il mito, e dunque accogliendolo. Egli propone il termine “mitologema” per designare il contenuto frutto della somma di elementi antichi trasmessi attraverso i racconti che costituiscono un messaggio che risuona in ogni lettore.

Come scrive Antonelli: «la mitologia, come s’è visto con Kerényi, è della stessa sostanza della Wirklichkeit»,[9] intendendo con tale termine un secondo livello di realtà, rispetto alla Realität, che traduce tutto ciò che è fondamentale per la vita dell’uomo come i valori e le emozioni. Questo termine si traduce in realtà ed effettività, infatti il verbo Wirken, significa letteralmente “avere un effetto su”, e a ciò che ha effetto non si può negare di essere reale, di esistere.

Secondo Ernst Cassirer il mito è un modo di conferire significato e di strutturare la realtà e lo considera dotato di una propria logica, certamente una forma pre-scientifica del pensiero. Diversifica mito e scienza intendendo con ciò, che il mito rappresenta la forma spirituale per comprendere il mondo.

Per Eliade il mito è un atto di creazione autonoma dello spirito e l’unica comprensione corretta del mito è attraverso una visione religiosa che lo considera come rivelazione del sacro.

Dunque l’uomo non crea miti per evadere e neppure questi sono espressione di una fase primitiva dello sviluppo umano, ma sono ierofanie, alla ricerca del sacro, una finestra attraverso cui l’uomo comunica e si sente parte del Mondo. Il mito ha anche un valore archetipico che costituisce modelli di azioni umane che si ripetono e riattualizzano la realtà sacra del tempo primordiale.

Dumézil riconosce una corrispondenza tra il mondo divino e il mondo umano, ossia quest’ultimo sarebbe il riflesso dell’organizzazione del mondo umano e ne rappresenterebbe l’ideologia grazie alla quale la comunità riflette sulle relazioni e le contraddizioni che la caratterizzano. Le mitologie dunque per Dumézil rappresentano i mezzi figurativi che permettono di parlare dell’uomo, del mondo e del cosmo.

Lévi-Strauss, rinomato antropologo studioso dei popoli amerindi, elabora una sua teoria affermando che, la mitologia è la forma caratteristica del pensiero figurativo dell’umanità che cerca risoluzione ai problemi universali. Questi materiali narrativi non sono perfettamente compresi ma circolano perpetuamente tra le persone che, attraverso essi, trovano un modello logico per risolvere una contraddizione.

Fondamentale fu anche il contributo di Georg Friedrich Creuzer, archeologo e storico tedesco, riconosciuto esponente del romanticismo mistico che si costituì ad Heidelberg. Egli si avvicinò allo studio dei miti e delle religioni con una modalità del tutto nuova, che non è soddisfatta nel rintracciare solamente l’origine storica, ma ne studia il significato recondito con la capacità, come la definiva lui, di “percepire mitologicamente”. Nella sua opera Simbolismo e mitologia dei popoli antichi, in particolare dei greci (1810-12) Creuzer ravvisa nel mito il contenitore dei simboli originari che racchiudono l’eterna verità dell’uomo e del mondo, ai quali può accedere solo l’intuizione immediata, non la scienza e il pensiero razionale. Inoltre, sottolinea Creuzer, la vicinanza alla derivazione di myo nella parola mythos, riporta a qualcosa di segreto, di detto a labbra strette, che rimanda ad un messaggio nascosto, da decifrare.

Così Creuzer ci ricorda che l’insegnamento arcaico consisteva nel rivelare:

«Il sacerdote ammaestrava se esponeva un’idea in una sentenza enigmatica. Ed ammaestrava anche quando indicava, nella potenza degli elementi, i potenti dèi, quando mostrava i segni del cielo e le figure delle stelle, quando esibiva le interiora della vittima sacrificale. Questi discorsi non erano dimostrazioni, né potevano esserlo, né dottrine del divino; erano guide al divino, rivelazioni direttive». [10]

Anche nell’opera Simbolo e mito, Creuzer fornisce un’altra importante precisazione utile ai fini della nostra indagine, ponendo l’accento sull’originaria simbolicità del mito, definisce il simbolo come “epifania del divino, come un raggio che giunge dalle profondità dell’essere e del pensiero, come un fulmine che di colpo illumina la notte buia”.

Questi autori e molti altri ancora, riportano l’attenzione sull’importanza del mito, facendo riemergere e riconquistare il suo vero significato: l’interpretazione simbolica della vita dell’anima che sarà, tempo dopo, affrontata da Hillman e dalla psicologia archetipica.

1.3 Mito e Psicoanalisi

Agli inizi del secolo lo studio ufficiale della mitologia era dibattuto tra due modalità di approccio distinte: una promuoveva un orientamento dello studio del materiale mitologico che tendeva ad una accettazione della mitologia in sé e per sé, come portatrice di una verità interna; un “bere alla sorgente” come sosteneva Kerényi e si risolveva poi in numerose correnti eterogenee che abbiamo sopra elencato. L’altra, più omogenea, allora e per lungo tempo dominata dalla scuola filologica tedesca, indirizzava lo studio nella ricerca delle spiegazioni del materiale mitologico e ne rintracciava prevalentemente un referente naturalistico o storico. La psicoanalisi si avvicinava maggiormente al primo filone, anche se, sia il pensiero freudiano, che quello di Otto Rank, quando vennero accolti furono ascoltati in genere con sospetto e diffidenza, se non con aperta ostilità. Di questo Rank si lamenterà direttamente nel ’21 nella prefazione alla terza edizione del suo libro: “In opposizione flagrante con questo successo apparente – scrive – è doveroso constatare che gli specialisti della materia ai quali questo libro doveva portare un contributo, non gli hanno mostrato finora che ben poca comprensione”.

In ogni caso fin dalle sue origini la psicoanalisi ha avuto un rapporto molto stretto con la mitologia.

Freud, nonostante fosse fortemente influenzato dalla cultura illuminista e dunque dalla ricerca di una verità sempre più oggettivabile, fu ispirato dalla mitologia e proprio da questo studio trasse ciò che potremmo definire il pilastro della sua teoria: il mito di Edipo. Egli scoprì che le scene di seduzione, tema che aveva caratterizzato la sua precedente teoria sulla nevrosi ossessiva, spesso non erano accadute realmente, ma erano il frutto di una ricostruzione immaginaria. Il complesso di Edipo si basa dunque per Freud sull’ipotesi secondo la quale l’uccisione del padre primitivo sarebbe all’origine dell’umanità, creando così il mito dell’orda primitiva nel quale i figli uccidono il padre.

Secondo Freud il linguaggio dei sogni è analogo a quello dei miti. Il sogno manifesto esprime desideri censurati che appaiono deformati attraverso i meccanismi di condensazione e spostamento, allo stesso modo il mito viene assunto come una manifestazione collettiva altamente elaborata dello spirito umano, di cui rivela e, al tempo stesso, dissimula certe tendenze inconsce.

Egli, dunque, riconosceva nell’attività mitopoietica una modalità inconscia di pensiero che permette di trasformare pulsioni infantili rimosse in miti endopsichici.

Addirittura, negli ultimi anni della sua vita, in risposta alla lettera di Einstein sul perché della guerra, del 1932, affermò: «Forse Lei avrà l’impressione che le nostre teorie siano una sorta di mitologia […]. Ma non approda forse ogni scienza naturale in una sorta di mitologia? Non è così oggi anche per Lei, nel campo della fisica?».[11]

Nel 1909 Otto Rank pubblicò il libro Il mito della nascita dell’eroe, nel quale s’interessava al tema del monomito, già molto discusso, e analizzando 22 miti, tra cui quello di Eracle, tracciava gli elementi comuni del viaggio dell’eroe che tratteremo in un capitolo successivo.

A riprova del successo del testo nel mondo psicoanalitico, del libro di Otto Rank, furono fatte tre edizioni, nel 1909, nel 1913, e nel 1921, tutte curate dall’autore. In ciascuna di esse furono apportate delle aggiunte e delle lievi correzioni in rapporto ai successivi scritti freudiani, in specie Totem e Tabù come nota l’autore nella prefazione alla terza edizione, ma il testo, nel suo complesso, rimase sostanzialmente inalterato.

Nel 1909 Karl Abraham scrisse un saggio interessante sul tema Sogno e Mito proponendosi di dimostrare che le leggende, le favole e i miti sono prodotti della fantasia umana sui quali può essere applicato il metodo interpretativo della psicoanalisi.

I miti sono considerati da Abraham come dei sogni tipici. Sarebbero dei desideri universali, condivisi dagli esseri umani di ogni epoca e latitudine. Sono originati, come i sogni, da fantasie sessuali e possono essere ritrovate e decifrate con la “lente” psicoanalitica: «Il mito è un brano della superata vita psichica infantile dei popoli. Esso contiene (in forma velata) i desideri infantili dei popoli».[12] La costruzione del mito procede per condensazioni, spostamenti e identificazioni successive del desiderio, e come nel sogno, rappresenta quello che viene chiamato “elaborazione secondaria”.

Sui miti sarebbero poi intervenuti dei processi di “rimozione di massa” che spiegherebbero l’incapacità dei popoli stessi di comprendere il significato originario del mito, ma che la perspicacia dello psicoanalista può decifrare e disvelare. Si ribadisce così la connessione con il sogno, e il mito sarebbe: «un frammento conservato intatto della vita psichica infantile del popolo (laddove) il sogno è il mito dell’individuo».[13]

La fantasia, per Abrahamnon ha quindi più una funzione “compensativa” quanto piuttosto una “traduzione” dei sogni personali e universali.

Pochi anni dopo, Jung si avvicinò alla mitologia dopo un importante sogno fatto durante il viaggio negli Stati Uniti con Freud.

In questo sogno Jung si trovava in una casa che sapeva essere la sua casa, ma che non riconosceva come tale. La costruzione era a due piani: la parte superiore era arredata in stile rococò, con appesi alle pareti antichi dipinti di valore, mentre quella inferiore era in parte in stile rinascimentale e in parte medievale. Scendendo ulteriormente, a un piano sotterraneo, si ritrovava in un locale di epoca romana e passando attraverso una botola accedeva ad una grotta dove c’erano sparsi resti archeologici di epoca arcaica assieme a due teschi umani.

Come racconta Jung, il sogno:

«evidentemente risaliva fino alle fondamenta della storia della civiltà, una storia di successive stratificazioni della coscienza…una specie di diagramma della struttura della psiche umana, con un presupposto di natura affatto impersonale…quel sogno diventò per me un’immagine-guida…fu la mia prima intuizione dell’esistenza, al di sotto della psiche personale, di un a priori collettivo».[14]

Inizialmente, l’avvicinamento di Jung alla mitologia rese molto felice Freud che pensò di poter condividere con lui le sue teorie sulla nevrosi, ma ben presto tra i due nacquero diverbi teorici insanabili.

In una lettera a Freud del 14 novembre 1911 Jung, facendo un raffronto sul metodo, afferma: «Io devo sempre procedere, lei lo sa, dall’esterno all’interno e passare dal generale al particolare».[15] In questa frase Jung anticipa la diversa modalità di leggere la realtà, partendo da un’idea kantiana delle forme a priori e dunque una lettura della mitologia attraverso le immagini primordiali che lo porterà a individuare la definizione di archetipo. Nella lettera di risposta di Freud del 30 novembre 1911, nella quale leggiamo anche il coinvolgimento e la partecipazione di Sabine Spielrein, oramai fedele del gruppo del suo gruppo, egli risponde:

«La Spielrein ha letto ieri un capitolo del suo lavoro [quello in cui elaborava le sue idee sull’impulso di morte]… e a ciò è seguita una discussione assai istruttiva. A me sono venute in mente alcune formulazioni contro il Suo… modo di lavorare con la mitologia che ho esposto alla piccola Spielrein. Questa del resto è veramente brava e io comincio a capire».[16]

Per Freud il sogno e il mito si comportano in modo analogo: utilizzano simboli che mascherano contenuti profondi, hanno un significato manifesto differente dal significato latente e sono il prodotto dell’appagamento di un desiderio. Anche Jung scorgeva analogie tra il mito e il sogno e riteneva che i racconti mitologici fossero il frutto di un’attività fantastica inconscia, con una funzione immaginativa transpersonale, accessibile in virtù di un abbassamento del livello mentale, luogo di rappresentazione di figure archetipiche emergenti dall’inconscio collettivo.

La differenza che Jung individua tra mito e produzione onirica è che nel sogno, le rappresentazioni s’impongono autonomamente, invece nei miti la loro configurazione viene da una stratificazione culturale.

Dal libro Ricordi, sogni e riflessioni sappiamo che per Jung gli studi di Creuzer ebbero un’importanza particolare per lo sviluppo delle teorie junghiane.

Lo psicoanalista svizzero, condividendo con Creuzer, in Psicologia e alchimia, sottolinea come nessuna formulazione intellettuale può raggiungere la capacità espressiva e la forza simbolica della parola mitica.

Egli trovò nello studio dei casi clinici e dei miti spunti per studiare la psiche individuale e la psiche intesa come anima del mondo.

[1] J. Ries, Il mito e il suo significato, Editoriale Jaca Book, Milano, 2005, p. 21

[2] P. Cristofolini, La scienza nuova di Vico: introduzione alla lettura, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1995, p. 84

[3] M. Fattal, Ricerche sul logos da Omero a Plotino, Ed. Vita e Pensiero, Milano, 2005, p. 49

[4] Tucìdide, La guerra del Peloponnèso, I, 20 e 22, trad. di L. Annibaletto, A. Mondadori, Milano, 1952, pp. 29-31

[5] E. Severino, La Filosofia dei Greci al nostro tempo. La filosofia antica e medioevale, ed. Rizzoli Bur, Milano, 1996, cap I. 2

[6] G. Mura, Il “logos” interprete della verità del “mythos” nel mondo classico, in AA.VV., Testo sacro e religioni. Ermeneutiche a confronto, a cura di Gaspare Mura, Urbaniana University Press, Roma, 2006, p. 91

[7] Sintetizzate in L. Brisson, Platone. Mitologia e filosofia, in Dizionario delle mitologie e delle religioni, Cit., II, pp. 1374-1387

[8] G. Vico, La Scienza Nuova, Introduzione e note di Paolo Rossi, Rizzoli, Milano 1977, p.131

[9] G. Antonelli, Al di là della Psicoanalisi. Otto Rank, Lithos Editrice, Roma, 2008, p. 63

[10] F. Creuzer, Simbolo e mito, PGreco Edizioni, Milano, 2010, p. 27

[11] S. Freud, A. Einstein, Perché la guerra?, Bollati Boringhieri, Torino, 2006, p. 75

[12] K. Abraham, Sogno e mito: uno studio di psicologia dei popoli in Opere, vol. 2, Torino, Boringhieri, 1975, p. 537

[13] Ivi, p. 566

[14] C. G. Jung, Ricordi, sogni, e riflessioni, a cura di Aniela Jaffé, Rizzoli, Milano, 1992, p. 203

[15] S. Freud, C. G. Jung, Lettere tra Freud e Jung (1906-1913), Bollati Boringhieri, Torino, 1974, p. 495

[16] Ivi, pp. 504, 505

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